Emozione come conoscenza

Paolo Quattrini
quattrini

psicoterapeuta e formatore, direttore dell’IGF – Istituto Gestalt Firenze

Le emozioni non sono quello che distingue gli esseri umani dagli animali, ma qualcosa che è uguale per gli animali e per l’uomo. La parola emozione viene dal latino e-movere, smuovere: un errore comune è pensare che si faccia qualcosa perché si è pensata, ma pensare equivale a girare lo sterzo di una macchina, se il motore non è in moto si può girare lo sterzo quanto si vuole, non si va da nessuna parte.

La vita umana è un sistema integrato di emozioni e pensieri: le emozioni sono il motore e i pensieri sono lo sterzo, con solo pensieri o solo emozioni o non si va da nessuna parte, o si va a sbattere. Prima viene l’emozione poi vengono i pensieri, che si possono innestare sulle emozioni o non innestare, come il cavaliere può salire o meno sul cavallo. Quando si fanno delle sciocchezze, si potrebbe dire che non si sa cavalcare: si sta magari sul cavallo, ma senza dirigersi verso una meta scelta.

Quando si cerca di capire i comportamenti delle persone, in primo luogo non c’è da guardare quello che pensano, ma le loro emozioni. L’emozione ha in sé un senso, per es. l’emozione di rabbia ha in sé il senso della difesa: la rabbia spinge a difendersi, mentre la paura spinge a scappare, mette le famose ali ai piedi. Senza la paura non ci si fa a scappare efficacemente: la paura manda in circolo una grande quantità di adrenalina, e che fa sì che i muscoli funzionino meglio, che ci si muova con riflessi più rapidi, che si corra di più, che si possa insomma sfruttare l’organismo più del normale. Naturalmente questo può avvenire solo in situazioni di emergenza: le risorse che una persona impaurita mette in atto non le può usare continuamente, perché altrimenti il suo organismo si logora, nel senso che correndo molto forte gli può venire un infarto se a un certo punto non smette. L’emozione mette in moto capacità che servono per uno scopo contingente, ma che non possono essere tenute per lungo tempo dall’organismo.

L’adrenalina, che alimenta sia la paura che l’aggressività, è fondamentale per scappare, e anche per combattere: l’adrenalina produce vasocostrizione e anestetizza, così si sente meno male negli scontri, e in più, in caso di ferite la persona perde meno sangue. La rabbia è assolutamente fisiologica al combattimento: combattere senza rabbia è pericoloso, ci si può fare molto male. Le emozioni sono gli organi della psiche: questo significa che le emozioni hanno una funzione biologica, ma significa anche un’altra cosa estremamente importante, e cioè che sono un modo di conoscere. Quando una persona è arrabbiata sta riconoscendo il mondo come pericoloso, cioè legge il mondo come aggressivo e entra in un sistema di difesa.

Se una persona è arrabbiata non gli si può dire di non essere arrabbiata, perché con la sua rabbia lei si sta dicendo: ‘il mondo intorno è pericoloso’. Se gli si dice “non essere arrabbiata”, lo legge come dire “non ti difendere e lasciati sopraffare”. Le emozioni vanno trattate in maniera congrua al loro significato, cioè non attraverso una logica lineare, ma attraverso una logica circolare: se per esempio la rabbia legge la situazione come un’aggressione, bisogna che la persona cavalchi la sua rabbia fino a ottenere dal mondo feed beaks rassicuranti.

Il peggio che si può fare a un bambino arrabbiato è reprimerlo, cosa che fanno spesso i genitori, che lo rimproverano e poi gli dicono: “e ora non ti arrabbiare!” Il bambino va in panne, perché la sua lettura del mondo è che sta essendo attaccato, e reprimergli la rabbia significa obbligarlo a una contraddizione: bisogna invece lasciarlo sfogare. Bisogna insegnargli a esprimersi piuttosto che agire: una persona che rompe qualcosa sta agendo, una persona che insulta qualcuno sta agendo, uno che batte i piedi e dice “sono arrabbiato, sono arrabbiato, sono arrabbiato!!!!!” si sta esprimendo. Bisogna che il bambino metta fuori la sua rabbia senza prendere a calci nessuno: sta agli adulti insegnare ai bambini la differenza tra esprimere e agire.

La differenza tra agire ed esprimere fondamentalmente è questa: quando parlo di me mi esprimo, per esempio quando dico che sono arrabbiato mi esprimo, quando parlo dell’altro e per esempio gli dico che è un imbecille, agisco. La domanda è, a cosa serve esprimersi? Esprimendosi si impara un linguaggio per il proprio mondo interno, si dà forma a quello che c’è dentro di sé, si impara un modo di comunicare, di farsi conoscere, di entrare in contatto con gli altri.

E’ una cosa molto importante: spesso gli adulti sono restii a comunicare il proprio mondo interno, provano una emozione, ma non hanno l’esperienza per gestirla: o la subiscono o la agiscono, o picchiano o ingoiano. Non c’è mai modo di fare quello che sarebbe invece importante fare, cioè arrabbiarsi esprimendo: “sono arrabbiato, questo non mi va bene, non mi piace!” L’importante è che i bambini imparino a gestire la rabbia senza agirla.

Uno dei modi di esprimersi è fare fantasie. Dire a una persona “Ti butterei fuori dalla finestra” non è un’azione: la frase dice “io ti butterei dalla finestra”. Le espressioni non sono innocue, perché possono fare molto più male delle azioni, ma sono legittime, perché quando mi esprimo sto parlando di me, e dove c’è libertà di espressione questo è legittimo. Con uno scambio di espressioni si può aprire e reggere una comunicazione, con l’agire non si va da nessuna parte: se uno dà del cretino ad un altro, l’altro magari gli risponde “cretino” anche lui, e poi dove si va? Ma se uno dice a un altro “spero che tu caschi dalle scale” l’altro può capire allora che è davvero arrabbiato con lui, e sentire paura per quanto è arrabbiato con lui”, e lì il dialogo può andare da qualunque parte.

Per gestirle le situazioni bisogna cominciare a tracciare una linea di divisione radicale tra agire ed esprimere, senza guardare poi come se fosse che l’agire fa male e l’esprimere no: agire è parlare dell’altro, esprimere è parlare di sé. Parlare di sé può fare più male che parlare dell’altro, ma è legittimo, non ferma il dialogo, è un tipo di gestione differente dell’aggressività. Pugni e insulti sono un’aggressività di bassissima lega che porta a stabilire un clima di non ascolto e basta. L’aggressività attraverso l’espressione può fare anche molto male, ma è come se aprisse le persone a rendersi conto degli altri.

L’importante è che non si fermi il dialogo. Dire “spero che tu caschi dalle scale” lascia tante possibilità, dire “cretino” non lascia aperture: la gestione delle emozioni in tempo di pace consiste nel farle scorrere senza che scorra il sangue. L’aggressività è un’emozione potente e pericolosa, è quella che fa fare le guerre, è l’emozione della conquista e della difesa del territorio. Si può immaginare un adulto incapace di aggressività, ma è una situazione grave, perché senza un certo grado di aggressività non si dice neanche buongiorno.

Ci sono famiglie di emozioni, che sono indispensabili e hanno tutte una funzione ben precisa.
– C’è la famiglia della fame: il bisogno, il desiderio e tutto quello che si può assimilare alla fame. Il dolore è una rottura dell’equilibrio dei bisogno, la soddisfazione è un’emozione di raggiunto equilibrio, sono emozioni dell’equilibrio tutte quelle che si possono immaginare in questo genere.
– Poi c’è la famiglia della fuga: la paura e tutto quello che è simile alla paura, l’ansia, il terrore, il sospetto, l’incertezza…
– Poi c’è la famiglia della territorialità, che è divisa in due categorie di forma molto differente: le emozioni della conquista del territorio e le emozioni della difesa del territorio. Hanno una faccia completamente diversa, la conquista del territorio è trionfo; la difesa del territorio sono tutte le forme di rabbia.
– L’ultima famiglia è quella del sesso: attrazione, interesse, piacere…

Come ci sono leghe di metalli, ci sono anche leghe di emozioni: una lega tipica è la gelosia che è una lega di amore, rabbia, paura e dolore; l’odio è una lega di rabbia e paura. La rabbia è diversa dall’odio: nella rabbia si vuole, in un certo senso, far soffrire l’avversario, nell’odio si vuole proprio far sparire l’altro e questo farlo sparire dipende dalla paura, non dalla rabbia. E’ come quando uno ha l’influenza, la vuole far sparire, non vuole tormentare il virus. Quando invece è geloso in genere non vuole far sparire la fidanzata, ma la vuole tormentare bene bene. Se si tengono presenti queste famiglie di emozioni, poi quando si ha un’emozione si cerca di localizzarla in una di queste famiglie, e ci si accorge subito qual è la sua funzione.

Anche la noia è un’emozione: è il segno che si reprime qualcosa. Per es. avresti voglia di tirare un pomodoro in capo alla persona che parla e non glielo tiri, allora senti noia. Tutte le volte che ti annoi stai reprimendo qualcosa, se guardi un pochino e gratti, trovi cosa stai reprimendo: magari voglia di andartene, dirgli bastaaa! La noia non è un’emozione vera e propria, perché le emozioni hanno la funzione di smuovere: per es. il dolore spinge l’organismo a fare qualcosa per farlo smettere, la paura spinge l’organismo a scappare. La noia non spinge chiaramente a fare qualcosa, è semmai una spinta lieve a fare qualcosa di più interessante, in questo senso la si può vedere una forma di fame, di bisogno. In effetti di noia si sbadiglia e di fame anche, in condizioni di paura invece non si sbadiglia proprio.

Lasciare i bambini alla noia sarebbe come dire lasciare che possano scoprire, attraverso la spinta della noia, qualcosa che li interessa, altrimenti hanno sempre cose piovute dall’alto, che coprono un po’ le loro fonti proprie. Nel libro ‘La storia infinita’ c’è il bambino di là dallo specchio, nel mondo della fantasia, e quello di qua dallo specchio gli chiede come si fa per andare di là: l’altro gli risponde ‘basta seguire i propri desideri’, e il bambino di qua commenta ‘allora è facile’. Il bambino del mondo della fantasia dice allora: ‘sapere cosa si desidera è la cosa più difficile del mondo’. Perché? Perché i desideri non sono come merce in un supermercato, i desideri non hanno forma, quello che noi abbiamo dentro è un campo di forze che spinge in modo non generico, ma non specifico. Es. quando uno va al ristorante, mica vuole mangiare una cosa specifica, ha una specie di intenzione che si incontra con il menù. Questa è la struttura base del desiderio, c’è una specie di spinta generale che si incontra con il menù che è il mondo. Allora questo menù può essere semplicemente il mondo che riesco a vedere con gli occhi o può essere anche il mondo che riesco a vedere con gli occhi della fantasia. Più largo è il menù, più sono le possibilità di scelta.

L’umanità non ha fatto altro che desiderare cose che non esistevano, creando, inventando. Tutto ciò che abbiamo è stato inventato da persone che desideravano qualcosa che non c’era. Un artista che fa? Non è mica vero che un pittore copia la natura, il pittore inventa delle cose che non ci sono mai state, il quadro è qualcosa che mai è esistita al mondo in quella maniera. Tutto ciò che l’umanità ha creato è figlio della fantasia e della capacità di immaginare oggetti del desiderio, non solo di vedere gli oggetti del mondo esterno.

E’ molto importante sviluppare la fantasia e rendersi conto che, almeno nella dimensione umana, esistono due tipi di realtà: la realtà reale e la realtà potenziale. Un gatto ha plausibilmente accesso solo alla realtà reale, un essere umano ha accesso anche a una realtà potenziale, cioè ai progetti: può inventarsi che la settimana prossima va ai Caraibi, un gatto non può. Su questo l’esperienza umana si allarga enormemente e anche le emozioni trovano uno spazio di movimento molto più ampio, perché non c’è solo da desiderare e sentire quello che si ha sott’occhio, ma si può anche desiderare e sentire quello che si immagina. Se una persona immagina qualcosa che gli interessa, poi l’emozione ce lo porta: se riesce ad immaginare un posto che trova affascinante, questo desiderio diventa portante e può riuscire a costruire un ponte tra lui e questo posto. Pensate ai bambini che sognano quello che faranno da grandi: è questo sogno che li porta. Alcuni hanno sogni piccoli, altri grandi: un grande sogno è come un treno, è un veicolo straordinario. Le persone che hanno pochi sogni arrancano se devono fare cose che non sono qui e ora: quelli che a scuola non ce la fanno, sono ragazzi senza veri sogni.

Il mondo delle emozioni e il mondo della fantasia sono assolutamente intessuti l’uno dell’altro: questo tessuto è una base essenziale per imparare qualcosa e per lo sviluppo umano, perché solo immaginando di usare quello che si impara si ha voglia di imparare, altrimenti che si fa a fare? Una difficoltà enorme per l’insegnamento sono questi ragazzi senza sogni, che non vogliono niente, niente altro che qualcosa che si può comprare. Ed è per questo che è così importante cercare di raggiungerli attraverso le emozioni e la fantasia, perché sono le emozioni che li fanno muovere, che li portano in una direzione, ed è la fantasia che apre la strada del futuro. Bisognerebbe riuscire a mettersi in sintonia con i loro specifici contenitori di fantasia, cioè riuscire a connettere ciò che gli si vuole insegnare con quello che loro immaginano, che è però un lavoro improbo.

Guardando i bambini sul piano emozionale, e guardando le emozioni nella loro funzionalità è comunque leggermente più facile gestire le situazioni: se si guarda un bambino arrabbiato come un bambino che sta difendendo la sua territorialità, se si cerca di capire qual è la sua territorialità minacciata, forse è più facile trovare una via di uscita per portarlo fuori dalla sua rabbia. Quando si vede un bambino che saltella da tutte le parti e si capisce che sta conquistando spazio, forse si può incontrare sul filo dell’avventura e cercare di portarlo verso altri tipi di conquiste, che non siano semplicemente lo spazio fisico. Non ci sono ricette precise, ci sono solo tentativi e soprattutto errori.

Cos’è il pianto? E’ qualcosa di analogo al riso, hanno la stessa funzione: è come il troppo pieno, in cui l’acqua arriva a un limite poi va via. Il pianto e il riso sono un modo di scaricare energia: l’organismo oltre un certo livello non regge, e il troppo pieno può andare nel riso o nel pianto. Sia il riso che il pianto sono ambivalenti: si può ridere di allegria, di dolore, di ansia, si può piangere di dolore o di gioia. Il pianto in se stesso non significa nulla, può venire da qualunque situazione, quello che significa è solo che il vaso è troppo pieno. Le emozioni sono una tensione, il bambino non regge la tensione della rabbia e piange: andrebbe forse sostenuto un pochino, nel senso di dirgli ‘sei arrabbiato, va bene, arrabbiati, pesta i piedi! ‘ Un problema molto diffuso è che i bambini hanno un radar nei confronti dello stato emozionale dei genitori: la rabbia può essere molto pericolosa perché attacca il legame, e i bambini quando sentono che i genitori non la sopportano sfuggono dalla situazione, spesso rimuovendo la propria rabbia.

Genitori e figli, soprattutto mamme e figli, si sono co-costruiti: questo vuol dire che i figli sentono le mamme come con un radar, e altrettanto le mamme sentono i figli come col radar. Non lo fanno apposta, ma senza saperlo, nel bene e nel male sanno dove mettere il dito: infatti i rapporti più difficili da gestire sono quelli fra genitori e figli, perché essendosi co-costruiti c’è come una mancanza di diaframma, toccano proprio tutti i tasti che non si vorrebbe che toccassero. E come se sapessero perfettamente come è fatto l’altro: in realtà non è vero, non lo sanno affatto, ma essendo co-costruiti, si muovono naturalmente in modo da ottenere effetto sull’altro.

L’autismo è l’esempio della interruzione della co-costruzione: negli autistici a un certo momento per una ragione o un’altra si è interrotta la co-costruzione con la madre, e per questo non capiscono le cose che tutti capiscono. Nessuno capisce cosa hanno in mente gli autistici, che a un certo momento hanno cominciato ad andare per il verso loro e sono diventati incomprensibili. Normalmente si pensa che capirsi è naturale, ma non è vero: ci si capisce perché siamo co-costruiti. A fare psicoterapia, già con persone di un altro posto si sente la differenza: con persone di altre culture poi è veramente difficile. Per un cristiano fare psicoterapia con un islamico è un’avventura: per gli occidentali il lato sinistro evoca emozione, apertura, rilassamento, ecc., mentre per gli islamici evoca qualcosa di sinistro, intoccabile, eccetera.

La co-costruzione fra madre e figlio porta il bambino a crescere normale: una volta cresciuto poi continua una co-costruzione culturale con le persone intorno, perché le parole, gli impliciti, ecc. co-costruiscono un mondo in cui le persone si possano capire. In realtà questo è abbastanza illusorio, si crede di capirci perché semplicemente parlando la stessa lingua si usano le stesse parole. In psicoterapia si conosce benissimo questa illusione: quando si dice qualcosa all’altro infatti, poi è consigliabile chiedergli cosa ha capito, e si constata spesso che ha capito tutta un’altra cosa rispetto a quello che si intendeva dire.

Le implicazioni di una parola sono diverse per un bambino e per un adulto: quando un adulto dice una parola e un bambino ascolta, l’adulto crede che il bambino abbia capito perché gli attribuisce le stesse implicazioni. Ma il bambino non ha le stesse implicazioni di colore, di gusto, di importanza, di peso, ecc.: è come se una parola fosse un contenitore, nei contenitori di un adulto c’è un sacco di roba, ma in quelli di un bambino c’è n’è pochissima. Se io mi immagino che il bambino abbia le stesse implicazioni che ho io, lui non capirà assolutamente nulla. E le implicazioni dipendono dall’esperienza.

Una volta che ci sono le implicazioni che permettono di capire, se una parola è detta male poco importa: quello che importa è che dentro la scatola ci sia quello che permette al bambino per capire. Far spiegare i bambini è un buon modo per tradurre, ed è anche un modo di accorgersi della distanza di linguaggio. E’ interessante chiedere al bambino perché secondo lui la persona gli ha detto quelle parole, e cosa significano per lui. Il pensiero dei bambini è molto visivo, poco concettuale, senza l’elemento visivo hanno difficoltà a capire.

Capire ha due canali fondamentali, il pensare e il sentire. Il capire del pensiero è quello che viene educato a scuola: quando il bambino entra a scuola pensa pochino, finisce l’università e pensa un po’ di più. Il canale del sentire invece, di solito è pressappoco uguale da quando si comincia la scuola a quando si finisce l’università. Non c’è nessun tentativo di sviluppare a scuola quest’altro canale, tutta la nostra cultura tende a sopravvalutare il pensiero e a sottovalutare il sentire. Nei famosi secoli bui del medioevo il sentire era tipico delle donne, e come tale considerato inferiore.

Qui siamo di fronte a un problema serissimo: a forza di insegnare alla gente a pensare, e a forza di non aiutarli a gestire il sentire, la qualità della vita è decaduta molto. Il mondo moderno è un mondo di molto avere e poco sentire: le persone hanno apparecchi che fanno musica raffinatissima, ma siccome non sentono, una musica di piatti o coperchi sarebbe al limite uguale. Emozioni e sensazioni sono il canale del capire sensorialmente: i bambini, come tutti gli animali, hanno questo canale meglio sviluppato di quello del pensare. Se si prendono per il canale del sentire e si cerca di fargli conoscere il mondo in questo modo è più probabile che si sveglino, e anche si incontrino fra loro in maniera meno dispersiva.

La drammatizzazione serve a spostare dal canale del pensare a quello del sentire. Quando una persona ha da mettere in scena, lo deve fare secondo quello che sente, e lì di solito i ragazzini sono capacissimi, perché capiscono benissimo col sentire. Un bambino di sei anni sul sentire capisce meglio di un adulto, perché non è stato rincretinito per anni dalla scuola: è un canale che funzionerebbe bene naturalmente, ma dopo anni di educazione il segnale si spenge. I bambini più poveri, per esempio quelli del terzo mondo, sono incredibilmente intelligenti, e incontrandoli si capisce che i nostri fanno i cretini per far piacere ai genitori, che li trovano carini così. In Brasile, che sono poveri e non hanno tempo per le scemenze, con un bambino di sei, sette anni, ci si parla come un adulto. I bambini hanno l’abilità di un gatto, che per esempio si accorge lontano un miglio quando sei arrabbiato, e allora non c’è verso di acchiapparlo. Ma chiunque sentirebbe l’emozione dell’altro se solo ascoltasse: se metaforicamente parlando aprisse bene le orecchie, sentirebbe che aria tira.

Nella tradizione occidentale le donne sono molto più percettive degli uomini, perché sono meno instupidite da un pensare ossessiva mente funzionale, e anche solo perché stanno più in rapporto, hanno le orecchie più aperte: gli uomini invece, che non sono obbligati a stare in rapporto, hanno una sensibilità media decisamente inferiore, quindi spesso non si accorgono di che aria tira. Il marito torna a casa e la moglie gli chiede “sei addolorato,” lui dice “e come fai a saperlo?”, ” ma perché lo vedo!” risponde lei. Per contro magari la moglie è un tappetino, lui arriva e ci mette i piedi sopra: non lo fa mica apposta, è solo che essendo cieco e sordo non si è accorto di come sta, e poi la moglie s’arrabbia, “ma ti devo spiegare proprio tutto!?”

E’ la differenza tra il pensare e il sentire: c’è questa romanticheria che gli animali sentono in modo straordinario, che hanno un istinto. In realtà hanno la stessa cosa che abbiamo noi, se solo si ascoltasse: allora si percepirebbero delle cose che sono sottili, sottilissime, ma ci sono. Negli ultimi decenni è stato fatto uno studio approfondito sulle espressioni delle facce. E’ stato scoperto, per es., che si può fare finta di sorridere, ma un sorriso finto non è come quello vero: negli occhi ci sono differenze minuscole, che si vedono però bene da filmati, fotografie, e relative misurazioni.

La cosa interessante è che, se è molto difficile vederle con il metro perché sono differenze impercettibili, è abbastanza facile riconoscerle dall’effetto che fanno: con questo si capisce che uno stato d’animo è perfettamente visibile da fuori. Le strutture di base, sia quelle fisiche che quelle psichiche, zampe, denti, atteggiamenti eccetera, le abbiamo ereditate da altri mammiferi che le hanno ereditate dagli anfibi e gli anfibi dai pesci, sono tramandate da centinaia di milioni di anni e sono strumenti che servono a sopravvivere. L’evoluzione ha funzionato così: chi non riusciva a sopravvivere lasciava poca discendenza, quindi sono sopravvissuti solo quelli che avevano attrezzature adeguate. La capacità di riconoscere lo stato d’animo dell’interlocutore dall’espressione della sua faccia è fondamentale per sopravvivere: la gazzella che non è capace di capire se il leone è affamato o no, dura poco. Quindi, il fatto di riuscire a riconoscerli malgrado che siano segnali impercettibili, non è niente di speciale, è solo un’attrezzatura che l’evoluzione ha messo a punto in centinaia di milioni di anni.

Il problema è fidarsi di ciò che si sente: chi si fida di ciò che sente, piano piano comincia a conoscere il mondo in questa maniera. Se si riesce a conoscere il mondo attraverso il sentire e anche attraverso il pensare, lo si conosce molto meglio. Se i bambini a scuola vengono aiutati a scoprire cosa e come sentono, diventano persone molto più facili da poter contattare. Infatti malgrado sia indispensabile, è difficile costruire qualcosa insieme: attraverso il vissuto emozionale, sensoriale, è più facile che attraverso il pensiero.

Territorialità

Un bambino sente comunque, perché ha una struttura sensoriale che glielo permette, ma come interpreta questo, è poi un fatto culturale. Mettiamo che senta paura di un altro bambino, che è aggressivo: se gli viene detto che non deve avere paura si anestetizza, non ha più paura ma non capisce più che quell’emozione lo stava informando che è meglio girare alla larga da quel ragazzino pericoloso. Se non riconosce il pericolo, non sarà mai in grado di difendersi. Perché da una persona aggressiva ci si può difendere in tanti modi, posto che si sappia che è pericoloso: ci si può star lontano fisicamente, si può non avere niente da dirsi, ci si può inventare un sacco di cose, ma se non si può averne paura si diventa stupidi e se ne buscherà sicuramente.

Bisognerebbe magari dirgli al bambino: “ah! hai paura di quello: allora forse è meglio che non gli vai tanto vicino”. Non basta esprimere un giudizio negativo nei confronti dell’altro, bisogna che il bambino impari a difendersi: lui ha paura, invece di lasciargli sopportare la paura, sarebbe più utile farlo esprimere, per es. dirgli “se hai paura di quel bambino, diglielo”. Se un bambino si spaventa e si allontana, poi la paura magari gli passa, e gli può venire voglia di riavvicinarsi. Le emozioni coesistono, convivono, e bisogna vederle in questa logica che non è lineare, ma circolare.

Alcuni animali sono territoriali, altri no: ci sono pesci che sono territoriali e altri no, ci sono mammiferi territoriali e altri non territoriali (per es. la mucca non è territoriale). Il territorio è uno spazio: come si misura questo spazio, come si può dire che il territorio di un pesce è di tanti metri? Si misura con la sua capacità di difendersi: un pesce riesce a difendersi, per es., fino a 5 metri dal punto centrale del suo territorio, magari a 6 metri scappa. Così sono i territori di tutti gli animali. Il territorio è quello che l’animale riesce a difendere: oltre una certa quantità di spazio l’animale invece di combattere scappa, e qui il territorio non si considera più suo. Il territorio è come l’orto: si ha un orto per avere da mangiare.

Il territorio di un lupo è alcuni chilometri, e lì dentro tutta la selvaggina è sua: è come una riserva di caccia sulla quale campa il lupo e la sua famiglia. Se gli si toglie la riserva di caccia fa la fame lui, la moglie e i figlioli. E’ la stessa cosa per un commesso viaggiatore: se un altro entra nel suo territorio e lo conquista, il commesso viaggiatore fa la fame, e la sua famiglia con lui. Un posto di lavoro è un territorio: quella sedia è il tuo territorio, significa che in fondo al mese hai soldi per campare la tua famiglia.

Territorio è uguale a possesso, è l’istinto del possesso. Possedere qualcosa sembra così normale che non ci si rende conto di come è strano: riuscire a sviluppare il senso del possesso è stata un’invenzione pazzesca per l’evoluzione, perché ha permesso la vita stanziale. Un animale, invece di andare in giro senza sapere dove e perché, se ne può stare a coltivare il suo territorio, con più facilità per la sopravvivenza. Il territorio per un essere umano è tante cose, da un territorio fisico a un territorio psichico: un bambino per esempio che non entra in classe finché gli altri non sono usciti, la fa probabilmente per una protezione del territorio. Lui sta vivendo quella classe come un territorio, finché ci sono gli altri non è territorio suo.

Il problema del territorio è importantissimo nella pedagogia, per tirare su figli o alunni: quando si viene al mondo non abbiamo un territorio nostro, il nostro territorio è mescolato con quello dei genitori. Se non avviene a un erto punto una divisione dei territori, la persona viene su senza territorio o con un territorio continuamente mescolato, con una difficoltà di autonomia. A livello mentale lo spazio è l’opinione: aiutare i bambini ad avere uno spazio proprio è aiutarli ad avere un’opinione, ed è importante anche aiutarli a non prenderla troppo sul serio. L’autonomia è un problema di gestione del territorio. E’ importante cominciare presto a dare al figlio uno spazio tutto suo, anche una scatola, una cassetta, in cui lui possa fare tutto ciò che gli pare; permettere di avere uno spazio, un nucleo espandibile, un nucleo rispettato, vuol dire anche permettere di rispettare quello degli altri.

I bambini a volte sono prepotentissimi sul tema del territorio: “mio mio mio mio!”. Col tempo a volte migliorano e a volte peggiorano e da grandi poi sono insopportabili. Bisogna occuparsi del comportamento territoriale del bambino, perché in pratica la vita civile richiede un mescolamento di territori. Questo è importantissimo per l’insegnamento, perché un territorio è anche una definizione del proprio status, cioè nel suo territorio ognuno è re: conoscere è un territorio, nella zona che io conosco sono re, se ci immetto altre cose e non capisco più nulla, divento l’ultimo dei mendicanti. Molte persone non vogliono capire niente per non perdere il proprio status. Per imparare infatti bisogna ammettere di essere ignoranti: questa è una ferita narcisistica, e le persone non ne vogliono sapere di ferite narcisistiche. La vita umana è paradossale: se non si accetta di scendere in basso, non si sale mai. In queste aree il movimento è paradossale: bisogna perdere per guadagnare, bisogna non capire per poter capire. Crescere è perdere qualcosa, ogni apprendimento è una perdita: c’è comunque anche una fame di imparare, c’è curiosità e se si passa da quella parte ci sono autostrade per arrivare ai bambini e di arrivare da qualche parte.

Un atteggiamento tipico è quello di considerare la confusione come negativa: bisogna invece tenere presente che la mente non funziona in modo lineare, funziona in modo circolare, cioè la mente capisce, qualcosa poi comincia a cercare quello che gli serve per finire un discorso, e al momento che cerca qualcosa di specifico, tendenzialmente non capisce più niente del resto. Una metafora del funzionamento della mente potrebbe essere il giorno e la notte: la mente funziona attraverso giorni che diventano notti, che diventano altri giorni, che diventano altre notti. E’ come se la chiarezza a un certo punto deve andare a dormire, allora poi si sveglia una nuova chiarezza. Comunque, è meglio avere idee sballate che non avere idee: le idee sballate possono essere cambiate, il niente non si cambia.

E’ inutile insegnare qualcosa quando le persone sono addormentate, bisogna riuscire ad aiutarle ad accettare questo andirivieni di chiarezza-confusione, e se riescono ad accettare la confusione come un dato in qualche modo positivo, allora poi il caos si sedimenta e capiscono a modo loro, e capiscono in modo integrato. Se non gli viene permesso di dormire, capiscono in modo sempre più staccato dalla realtà, in una maniera che è concettuale ma non è esperenziale. Se si accettano confusi, se si accetta che dormano durante il processo di comprensione, poi capiscono davvero: la comprensione si deposita, diventa carne della loro carne, non è più solo concetti. Però non è facile d fare, perché la nostra cultura ha una vera antipatia per la confusione. Forse sarebbe il caso di dirgli “va bene, sei confuso, non ti preoccupare, hai capito fino qui, stai un po’ nella tua confusione e non ti preoccupare: ora sei confuso, ma poi capirai”.

Gli esseri umani sono uno differente dall’altro e non c’è una regola possibile che valga per tutti: là dove le persone hanno trovato un loro modo di fare funzionare la mente vanno lasciate fare, perché la mente è una cosa stranissima ed è difficilissimo farla funzionare. E’ un’avventura straordinaria, e ognuno inventa sistemi che gli altri non conoscono. Dargli il permesso di essere confusi è fra l’altro, un eccellente trucco per il controllo dell’ansia: si chiama comando paradossale, quando rivesti autorità e dai un comando paradossale, alla persona si ferma l’ansia, perché non è più nello stress di dover fare qualcosa. Così forse non diventano più bravi, ma nemmeno si fanno paralizzare dall’ansia.

Quando i bambini dicono a volte “l’ho capito, stai tranquilla”, si stanno preoccupando del fatto che la madre non sia tranquilla: gli adulti non prendono mai in considerazione quanto i bambini si sforzano di non far provare ansia o paura ai genitori, e non capiscono nemmeno che i bambini si accorgono benissimo della loro ansia.
I bambini si danno tantissimo daffare per questo: a volte vanno in tilt per le emozioni degli adulti, perché sono troppo preoccupati per la mamma, il babbo, l’insegnante, e cominciano a inciampare sui propri piedi. Anche da questo punto di vista è importante guardarli dal versante emozionale perché si vedono delle cose che normalmente sfuggono. E anche si capisce quanto l’apprendimento sia disastrato dagli effetti incontrollati delle emozioni.

I genitori a volte non credono che i bambini sentano: credono che passi tutto attraverso le parole. In un caso piuttosto terribile il padre, delinquente e matto, tutto insieme, picchiava un bambino molto piccolo, sei mesi circa. Il commento della madre fu: “ma tanto il bambino è piccolo, non capisce mica!” In realtà, basta che ci si metta a ricordare, ci si ricorda di cose antichissime, e con i dettagli: da bambini si capisce con le emozioni, il radar dell’organismo.

Esprimere l’aggressività

Sbattere qualcuno nel muro o offenderlo è molto più facile che dire: sono arrabbiato! Dal punto di vista dell’organizzazione mentale, se si riesce a far dire al bambino “sono arrabbiato”, quello ha fatto una conquista nella sua organizzazione psichica.

A scuola il bambino che strilla e sbatacchia, un’insegnante lo può anche buttare fuori, ma dicendogli magari “vedo che sei molto arrabbiato e che vorresti gridare e sbatacchiare ancora tutto il giorno, o almeno per un’ora, ma io purtroppo devo portare avanti la classe e non posso tenerti qui, mi dispiace perché la tua rabbia è molto interessante, ma io devo fare altre cose, perciò vai a strillare fuori”. La cosa importante è dirgli “vedo che sei molto arrabbiato”, detto possibilmente in contatto fisico, prendendolo per un braccio e guardandolo negli occhi, “vedo che sei arrabbiato, ed è molto importante che tu sia arrabbiato”: la sua emozione va supportata, non diminuita. “purtroppo non posso stare con te, ma la tua rabbia è molto importante e interessante” perché tanta di quella energia va nell’affermare qualcosa che viene sconfermata: è come se gli venisse detto “la tua rabbia non è importante, e a questo punto lui dice “invece si, invece si”, ma se gli si dice “la tua rabbia è importante ma io ora non posso”, questo ha necessariamente un altro effetto.

Le emozioni non si sentono se si agiscono: se uno scappa non sente paura, se uno picchia non sente rabbia. La rabbia si sente da fermo, oppure se si è arrabbiati e non si picchia, ma se si è arrabbiati e si sta picchiando qualcuno non si sente. Se la persona riconosce “io ho rabbia”, c’è lui e c’è la rabbia: se non se ne accorge, c’è solo la rabbia, diventa lui la rabbia e ci si perde dentro, e allora non ci sono alternative serie.

Mary Poppins può dire qualunque cosa, ma la dice in una maniera che è come fra virgolette: può dire “quando fai questo sono arrabbiatissssssima”. Bisogna essere credibili, ma non minacciosi, perché una cosa fondamentale nelle relazioni con i bambini è di non spaventarli: se si spaventano, diventano irraggiungibili, si chiudono a riccio e diventano impenetrabili.

I bambini non sono tabule rase, sono organizzati ma spesso organizzati male: non è che si chiudono a riccio lì per lì, in genere sono già chiusi da tempo, è qualcosa che hanno sviluppato nel rapporto con i genitori. Entrare dentro le corazze difensive di un bambino è un lavoro difficilissimo, è già tanto riconoscerle: non ci sono ricette risolutive, il problema è tentare di migliorare un pochino la situazione avvicinandosi piano piano al bambino chiuso, inarrivabile, che ha strutturato una corazza.

Negli approcci di tipo umanistico quello che l’analista sente con il paziente lo può dire, ma bisogna che lo sappia fare, e bisogna soprattutto che lo dica senza minaccia: non può dire al paziente “mi fai arrabbiare”, può comunicare la rabbia nella misura in cui la si sopporta, e può dire per esempio “ora io sento rabbia”, prendendosi la responsabilità del suo sentire. E’ comunque la modalità con cui viene detto che è importante: bisognerebbe che la rabbia sia anche un po’ folcloristica: “ora vado a prendere l’affettamortadella e vi passo tutti nell’affettamortadella”. Le persone un pochino hanno anche paura, ma si divertono: l’importante è che abbiano paura con divertimento.

I bambini vanno tenuti a contatto con le emozioni degli adulti, altrimenti vivono in mondo ovattato e insignificante, e poi quando devono andare da soli in giro per il mondo si trovano in qualcosa di ingestibile: vanno tenuti a contatto con le emozioni, ma non sepolti sotto le emozioni. Il peso è degli adulti: l’emozione dev’essere contenuta dagli adulti, e loro vengono come sfiorati da una mano.

A proposito di sentire e esprimere a prescindere dal pensare, è interessante come le persone con disturbi psicotici percepiscono cose di cui in teoria non potrebbero accorgersi. In realtà, dove il canale del pensiero è impedito, quello del sentire prende più campo: una parte della cattiva fama dei matti è che i matti vedono appunto meglio dei sani, e ai sani non gli garba molto di essere visti in trasparenza. La cattiveria, l’ipocrisia, i matti le vedono e le sparano in faccia agli interlocutori, come fanno i bambini, che hanno questa ingenuità del percepire quello che c’è davvero. L’emozione è una comprensione del mondo, è un canale per capire, è come un radar che reagisce, è un modo di capire sottilissimo in cui si percepiscono cose che concettualmente non c’è modo di capire.

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